Cat Stevens: “Il mio Islam tradito”

immagine tratta da La Repubblica

Pubblichiamo un articolo del 2014 tratto da L’Espresso che tratta di un’intervista a Cat Stevens, che ora si fa chiamare Yousuf, dato che anni prima si è convertito all’Islam. Questo articolo ripercorre la SUA VITA e racconta tutto quello che lo ha poi portato a convertirsi. Oltretutto, molti temi di questa intervista sono attuali.

Cat Stevens: “Il mio Islam tradito”

Il cantante torna in tour. E parla di musica. Ma anche di primavere arabe. Di Stato Islamico. E di come 
viene mal interpretata la religione che ha abbracciato : “Ho incontrato interpreti del Corano 
molto conservatori. Sono state commesse ingiustizie impossibili da ignorare. 
Sì, è facile essere indotti in errore”

DI PETER REYNOLDS
Riuscire a parlare con Yusuf Islam, 66 anni, è una cosa abbastanza rara, e ancor più raro è che conceda un’intervista. Ma stavolta l’uomo diventato famoso col nome d’arte di Cat Stevens negli anni Sessanta e Settanta parla senza ritrosie del suo nuovo album, “Tell ’Em I’m Gone”, che è una combinazione di cover e brani originali, un omaggio agli artisti del blues e del rhythm and blues della sua giovinezza e della Swinging London degli anni Sessanta. Non soltanto di questo, però: convertito da tempo all’Islam, con noi Stevens parla anche dell’Isis, della guerra in Iraq, di fraintendimenti del Corano. Del fallimento della Primavera araba e del movimento Occupy Wall Street. Per non farsi mancare nulla.

Cat Stevens, cominciamo dal nuovo album?
«È stato un divertimento per me. Ho voluto provare qualcosa di nuovo, mescolare il vecchio bagaglio di canzoni che mi portavo dietro – in gran parte classici del blues – con la mia nuova musica».

Così si è ritrovato negli Shangri-La Studios a Malibu. “Tell ’Em I’m Gone” è dedicato alla musica della sua giovinezza?
«È un omaggio al rhythm&blues, la scintilla da cui è iniziata la mia carriera. È stato dopo aver ascoltato alcune incredibili incisioni provenienti dagli Stati Uniti che ho voluto dedicarmi alla musica. Ma poi, appena ho avuto in mano una chitarra, mi sono orientato verso il folk blues. La musica folk ha conosciuto una grande stagione a Londra, anche Burt Jansch, Davey Graham, Paul Simon sono passati attraverso questa fase. C’era un club dove ci ritrovavamo per ascoltare questa grande musica proveniente dagli Stati Uniti: le registrazioni della Motown, i concerti di Chuck Berry e di Ray Charles. Tutte le celebrità che abbiamo amato sono passate attraverso il blues».

I mitici anni Sessanta… Sono stati il momento migliore per la musica? Il momento migliore per vivere?
«Sono stati un periodo incredibile, rivoluzionario. Abbattevamo i muri, ci siamo riusciti. C’erano ancora problemi per gli artisti neri, c’erano barriere da sfondare, ma attraverso la musica abbiamo potuto farlo».

Lei per 25 anni non ha più lavorato. In quel periodo ha riscoperto questi album?
«Il mio ritorno alla musica è stato molto lento. Si è trattato di una riscoperta dentro di me, delle radici della mia eredità musicale e del mondo in cui sono cresciuto. Dei miei ricordi e delle mie ambizioni. Credo che la tradizione rhythm’n’blues non sia mai stata rivisitata prima, ho voluto fare quest’album per riesplorarla. Tutto è iniziato qualche anno fa, quando ho scritto la canzone “Peace Train Blues”. Talmente mia che ho pensato che avrei potuto scriverne altre. Cosa che è avvenuta. È cominciata questa nuova fase. Ho scavato nel passato, trovato vecchi dischi che volevo ascoltare di nuovo, di personaggi come John Lee Hooker, Muddy Waters, Bo Diddley, Chuck Berry, Ray Charles, Nina Simone. Loro hanno continuato a lavorare, io ho continuato ad ascoltare le loro voci. E poi ho deciso di scrivere io stesso un po’ di queste canzoni. Come “Big Boss Man”».

Sulla sua pagina Facebook c’è una foto che la ritrae con Jimi Hendrix. Quando vi siete conosciuti? Avete mai improvvisato insieme?
«No, ma lui è stato un grande. Un personaggio. Anche molto amichevole, se riuscivi a conoscerlo meglio. Ci siamo incontrati al Package Tour del 1967, strano evento cui parteciparono Engelbert Humperdinck e i Walker Brothers. Ci siamo divertiti in quell’occasione. Mentre cantavo “I’m Gonna Get Me A Gun”, mi spruzzavano con pistole d’acqua da dietro le quinte».

E adesso? Cosa resta dello spirito di quei tempi?

«Oggi c’è grande spirito di collaborazione, ed è la cosa più divertente, anche se tutto rischia di diventare commerciale. Ma se vuoi lavorare seriamente con qualcuno, puoi farlo».

Cos’è per lei il blues? Libertà?
«Sì».

E uno stile di vita?
«La musica ha molti scopi. A volte ci rilassa, a volta ci eccita, a volte è uno strumento di liberazione, anche solo per pochi minuti. È successo con i primi dischi: si incideva una sola canzone, e quando era diventata un successo se ne commissionava un’altra. Il che ha permesso – soprattutto agli artisti neri – di essere conosciuti, di avere una vita migliore. Il blues è anche questo, ha a che fare con la lotta per la libertà. Ho scritto una canzone, “Gold Digger”, sulla lotta contro l’apartheid in Sud Africa e sull’inizio dell’Anc nato da uno sciopero».

Certe storie continuano anche oggi. La Namibia e le sue miniere d’oro, i “blood diamonds” e il resto…
«Vero. Ancora oggi ci sono grandi capi in sella ai loro cavalli che guardano dall’alto in basso il resto dell’umanità e cercano di piegare la gente ai loro desideri. Il movimento anti-Wall Street è stata una delle reazioni»…per continuare a leggere cliccare:

http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2014/11/07/news/cat-stevens-il-mio-islam-tradito-1.186953
fonte: L’Espresso