Sesto, Antonio Pizzinato: riflessioni sui diari di Bruno Trentin

Pubblichiamo con piacere le interessantissime riflessioni del Compagno Antonio Pizzinato riguardo i diari di Bruno Trentin.

RIFLESSIONI SUI DIARI DI BRUNO TRENTIN

Testo di Antonio Pizzinato

4 ottobre 2017

Non nascondo la mia sorpresa nel leggere alcuni passaggi dei Diari di Bruno Trentin, editi nel decimo anniversario della sua morte. Il libro, pubblicato da Ediesse a cura di Iginio Ariemma, si riferisce al periodo 1988-1994, quando Trentin era segretario generale della CGIL.

Sono più di 500 pagine, che fanno vivere intensamente quegli anni caratterizzati dal grande impegno nelle lotte del lavoro, dalle battaglie politiche, da straordinarie trasformazioni politiche e sociali determinate da avvenimenti nazionali e internazionali: dalla caduta del muro di Berlino alla fine dell’Unione sovietica, la trasformazione del PCI, il confronto acceso all’interno della CGIL per il suo rinnovamento.

Ho conosciuto Bruno Trentin negli anni Cinquanta, quando facevo parte della Commissione Interna della Borletti e lui era nella segreteria della CGIL con Di Vittorio. I rapporti si intensificarono quando lui fu eletto segretario generale della FIOM, nel 1962, e io passai prima all’apparato della FIOM provinciale di Milano, con la responsabilità della Contrattazione poi divenni per dieci anni responsabile della FIOM di Sesto San Giovanni quindi segretario della FIOM provinciale milanese.

Sono stato in segreteria nazionale della CGIL dal giugno 1984 al gennaio 1992, e anche quegli anni hanno rinsaldato una forte relazione politico-sindacale fra noi.

Posso dire di essermi sempre sentito in grande sintonia con lui. E anche molto vicino in termini di rapporti personali, di amicizia.

Ecco perché ritengo giusto e doveroso svolgere qualche considerazione riguardo affermazioni inesatte non attribuibili a Trentin, e riguardo a giudizi espressi invece proprio da lui, giudizi  che mi giungono inaspettati e per certi versi incomprensibili.

A pagina 509 si dice che fu Trentin a propormi quale segretario generale della CGIL. Ciò non corrisponde assolutamente al vero. Dopo la mia esperienza alla FIOM provinciale sono stato eletto segretario della Camera del lavoro di Milano e nella segreteria regionale della CGIL, o meglio segretario generale aggiunto della CGIL Lombardia. Io pensavo di consolidare quella esperienza, di rimanere nella città dove abitavo, di concludere così il mio impegno sindacale. Rispondo di no a Pio Galli, che mi propone di lasciare la CGIL e diventare segretario generale della FIOM. Ma è Luciano Lama in persona che viene a parlare con me a Milano, per convincermi a entrare nella segreteria nazionale della CGIL, con la prospettiva di diventarne al successivo congresso il segretario generale.

Io temevo il “salto”, ritenendo di non aver maturato un’esperienza nazionale sufficiente. Ma durante un suo passaggio da Milano, Berlinguer mi convocò per parlarmi e sollecitarmi  ad accettare la proposta di Lama.

Era l’8 giugno del 1984; tre giorni dopo a Padova avrebbe tenuto il suo ultimo comizio, chiuso nel tragico modo che tutti ricordiamo. Dopo Berlinguer fu a Natta guidare il PCI, e anche lui come nuovo segretario del PCI venne a parlarmi. Ben presto informai Trentin di questa proposta. Intanto un gruppo di compagni coordinato da Gianfranco Rastrelli condusse un sondaggio fra i componenti del comitato direttivo della CGIL. Salvo due o tre pareri contrari una maggioranza schiacciante si dichiarò favorevole alla mia candidatura. Entrai in segreteria nazionale il 20 luglio, eletto in sostituzione di Lalla Geirola.

Quando nel 1986 al Congresso vengono eletti i componenti del direttivo (che poi mi eleggerà segretario) io sono fra coloro che propongono e ottengono il voto segreto. Risulterò il più votato. Il nuovo direttivo, la sera stessa, mi eleggerà segretario generale, in modo compatto. E’ abbastanza chiaro, e lo ha scritto anche Pio Galli nel suo libro autobiografico, che Lama non voleva come suo successore né Trentin né Garavini. La sua scelta cadde su di me e lavorò in quella direzione.

Come dicevo, grande è la sorpresa per una serie di affermazioni, contenute nei Diari, che non corrispondono alla memoria, ben presente, dei miei rapporti con Bruno Trentin, sempre franchi, calorosi e – almeno credevo – ampiamente in sintonia. Ricordo l’ultima volta che ci siamo trovati insieme a parlare di sindacato, a Pistoia, durante un dibattito ad una festa della CGIL poco prima che lui partisse per San Candido dove di lì a poco avrebbe avuto l’incidente in bicicletta che un anno dopo lo avrebbe condotto alla morte. Fu un bell’incontro, fatto di riflessioni comuni, senza alcun elemento significativo di dissenso.

Le tematiche sollevate e i giudizi non positivi sull’operato dei dirigenti della CGIL espressi nei Dari di Trentin sono ampiamente affrontati nel’intervento di Luigi Agostini che come componente della segreteria della CGIL era responsabile del dipartimento di Organizzazione, in quegli anni. In gran parte condivido le sue osservazioni e valutazioni.

Devo invece prendere atto che per alcune vicende di quel periodo lui avesse maturato, senza mai dirlo chiaramente, opinioni diverse dalle mie. In vari capitoli dei Diari si esprimono giudizi e valutazioni critici sul mio operare. Fino al punto di definire “tragicamente debole, patetica e astiosa” la mia “reazione” a chi non mi vedeva di buon occhio nel ruolo di segretario generale. Il concetto, con sfumature diverse, viene ripetuto varie volte, nei Diari.

Personalmente non posso essere d’accordo con l’attribuzione di un aggettivo come “patetico”, generato da un giudizio tanto soggettivo quanto opinabile, ma sugli altri due, “astioso” e “debole”, qualcosa vorrei dire.

Sull’astio spendo davvero poche parole. Chi mi conosce sa che non ho mai avuto un carattere astioso, anzi l’astio è sempre stato quanto di più lontano ed estraneo dalle mie reazioni, tanto nel privato quanto nel pubblico. L’astio dovrebbe portare a ritorsioni, vendette quantomeno politiche, rivalse di quache tipo. In tutta la mia storia politica e sindacale sfido chiunque a trovare qualcosa del genere.

Quanto alla debolezza, voglio qui semplicemente ricordare le due battaglie sulle quali ho speso le mie maggiori energie, con tutta la forza di cui sono stato capace: l’unità sindacale e la rifondazione del sindacato.

A Sesto San Giovanni avevo contribuito a costruire la nascita del SUM – Sindacato unitario dei metalmeccanici sestesi – , che aveva preceduto di qualche anno la nascita della FLM, la Federazione dei lavoratori metalmeccanici che riuniva Fiom- CGIL, Fim – CISL e Uilm –UIL. Dal 1972 l’esperienza unitaria si era ampliata con la creazione della Federazione CGIL CISL UIL.

Ma nel 1984, quando arrivai a Roma nella segreteria della CGIL, come effetto dell’accordo separato e poi del decreto governativo di San Valentino, quell’esperienza si era conclusa: proprio a me toccò, nel mese di luglio, il triste compito di provvedere al trasloco dei mobili, della cancelleria e delle carte della CGIL dalla sede della Federazione Unitaria a quella di Corso d’Italia.

Il taglio alla scala mobile operata dal governo Craxi dopo l’accordo separato di San Valentino, la sconfitta al successivo referendum abrogativo promosso dal PCI in continuità con la posizione espressa da Berlinguer prima della sua morte, avevano segnato la fine dell’unità sindacale. Ed è in quel contesto drammatico che io approdai al vertice della CGIL, prima in segreteria, poi, con il congresso del 1986, come segretario generale. Mi impegnai con uno sforzo straordinario innanzitutto per ricostruire un forte rapporto unitario. Negli anni in cui ho operato come segretario si sono conquistati centinaia e centinaia di accordi di categoria nei territori e nelle fabbriche, tutti unitari. Solo uno non fu unitario: al porto di Genova, per la forte opposizione dei militanti della Compagnia unica dei portuali.

Quanto all’altro tema, la rifondazione, posi la questione allora, ma dopo oltre trent’anni non è ancora stata affrontata davvero. Cosa intendevo e intendo per rifondazione? Si trattava, e si tratta, di adeguare il sindacato al cambiamento. Al mio arrivo in segreteria ero stato destinato al dipartimento industria e contrattazione. Mi fu subito chiaro (lo racconto anche nel libro “Viaggio al centro del lavoro”) che il cambiamento implicava conseguenze sul piano organizzativo. Un’equazione non ancora risolta.

La rifondazione del sindacato assunta dal Congresso del 1986, partiva dalle trasformazioni e dalla riorganizzazione dell’economia, delle tecnologie e dell’organizzazione del lavoro. Il mutamento del peso dei settori economici e produttivi col passaggio dal prevalere dell’industria al terziario e ai servizi, alla frantumazione dei lavori. Quindi rifondazione del sindacato per realizzare una riforma della contrattazione e delle relazioni sociali, per assicurare nella nuova realtà parità di diritti per tutti i mondi del lavoro. A trent’anni di distanza non si è ancora realizzata: sono anzi aumentati, dagli anni 80, le diseguaglianze, le tipologie di lavoro precario, sino ad arriare al al Jobs Act, che ha rimesso in discussione principi dello Statuto dei diritti dei lavoratori.

Non c’è più un mondo del lavoro, ci sono numerosi mondi del lavoro. Vi è una frammentazione sempre più grande. La maggioranza dei lavoratori è occupata in piccoli e piccolissimi luoghi di lavoro.

Sesto San Giovanni – già quinto centro industriale del Paese – ne è un esempio: in passato l’80% dei lavoratori erano occupati in quattro grandi aziende; oggi la stessa percentuale ovvero circa l’80 % dei lavoratori sestesi sono occupati in aziende con meno di 15 dipendenti, non solo, ma il 95% di questi lavoratori sono alle dipendenze di realtà produttive con meno di 5 occupati, nella maggioranza dei casi addirittura con solo uno o due addetti. Quindi se si vuole oggi realizzare un sindacato di tutti i lavoratori è necessario aprire sedi nei quartieri e nei piccoli paesi, operative almeno dalla mattina alle 8 alle 22 della sera. Con turni sia degli apparati sia di volontari. E al contempo è necessario compiere un salto di livello per quanto riguarda la contrattazione.

Da un lato occorre rifondare, accorpandole, le federazioni di categoria: non dovrebbero essere molte, dieci o quindici al massimo, non quante ne registriamo oggi. E bisogna ridurre, accorpando anch’essi, il numero dei contratti nazionali di lavoro.

Oggi registriamo una situazione così caotica che non è esagerato definirla fuori controllo. Il CNEL, che tiene l’archivio dei contratti nazionali e degli accordi sindacali (sopravvissuto al referendum del 4 dicembre 2016) ha reso noti i numeri relativi alla contrattazione di categoria. Sono impressionanti: nel 2013 sono stati stipulati 561 contratti nazionali, 618 nel 2014, 798 nel 2015, 757 nel 2016, 809 del 2017. Ma degli 809 del 2017 solo 263 contratti nazionali, pari al 32,5 %, sono stati stipulati da CGIL CISL e UIL. Gli altri 546 sono stati firmati da sigle non aderenti alle confederazioni sindacali, e nemmeno riconducibili ai Cobas, con organizzazioni imprenditoriali altrettanto poco rappresentative.

Quindi, dall’altro lato, è necessario ridefinire ed estendere a tutti la contrattazione integrativa di secondo livello per quanto concerne i luoghi di lavoro al di sotto dei 50 dipendenti. Si tratta di realizzarla a livello di distretto – di territorio – affinché per tutti i lavoratori, a partire dai luoghi di lavoro con un solo dipendente, vi sia la possibilità di eleggere rappresentanti in “Consigli di zona dei lavoratori” per i dipendenti delle piccole aziende. Tali Consigli debbono disporre del potere di contrattazione integrativa di secondo livello per tutti i lavoratori del territorio.

Per fare questo occorre tradurre in norme di legge valide per tutti il protocollo d’intesa tra CGIL CISL UIL e Confindustria sottoscritto negli scorsi anni sul tema della rappresentanza. Un protocollo unitario stipulato fra le confederazioni e la Confindustria senza la partecipazione del Governo. Da questo punto di vista io credo che la rifondazione del sindacato, il nuovo disegno delle politiche contrattuali e delle politiche sociali per garantire parità di diritti per l’universalità dei lavoratori come sopra richiamato siano decisivi in questo 21 esimo secolo.

Ebbene, nonostante la forza della testimonianza rappresentata dai Diari, di questa riflessione sul ripensamento e radicamento del sindacato non vedo traccia. Vedo invece purtroppo poco rispetto per tutti i componenti del gruppo dirigente della CGIL di quel periodo, con l’uso reiterato di espressioni che mettono in discussione non solo il loro ruolo ma anche la strategia e l’operato della CGIL.

Antonio Pizzinato