PIECE DE RESISTANCE – Taxi Driver in Teheran

di Mauro Caron. Esco dal letargo estivo da spettatore cinematografico andando a vedere Taxi Teheran, un film iraniano firmato da Jafar Panahi. Il film non è una passeggiata (in senso figurato e letterale: le riprese sono tutte effettuate nel e dall’abitacolo di un’automobile) ma è doveroso andare a vederlo, o per lo meno sapere che esiste, e adesso cercherò di spiegarvi perché.

Un tassista sorridente, goffo e poco competente si aggira per le strade della capitale iraniana. La gente sale sul suo taxi, chiacchiera, scende.

Dalle chiacchiere emerge un ritratto non tanto casuale della società iraniana contemporanea: si parla di cinema, di censura, di condizione della donna (la moglie che non può ereditare dal marito morente), di pena di morte (due ragazzi giustiziati per uno scippo; al proposito una maestra argomenta che l’Iran è il secondo Paese al mondo per numero di esecuzioni capitali – dopo la Cina – ma non per questo ha risolto i problemi di criminalità).

E intanto qualcuno si accorge della piccola telecamera sul cruscotto. Qualcuno addirittura riconosce l’autista del taxi, è Jafar Panahi, regista cinematografico iraniano noto al pubblico dei cinefili, pluripremiato ai festival del cinema di Cannes e Venezia (Il cerchio vinse il Leone d’Oro). Perché guida un taxi? Perché la “giustizia” iraniana l’ha condannato a non girare più film. Perché quella telecamera sul cruscotto? Perché questo sarà il suo prossimo film.

Panahi, allora in attesa del verdetto, l’aveva già dichiarato nel titolo di un suo film: This Is Not a Film; e alla fine di Taxi lo ribadisce, dichiarando che poiché la censura iraniana passa in rassegna i titoli di testa e di coda dei film, questo nuovo non-film non avrà né capo né coda, in modo da proteggere anche quanti vi hanno illegalmente recitato e contribuito.

Come dice la nipotina di Panahi nel film, gli insegnanti di cinema iraniani raccomandano di raccontare la realtà, ma se la realtà è troppo sordida è necessario edulcorarla un po’. Panahi, nelle sue trascorse pellicole, parlando del ruolo della donna, della realtà sociale, del clima di oppressione religiosa dell’Iran di oggi, evidentemente, non ha edulcorato abbastanza. E’ stato così arrestato, detenuto, processato, condannato a sei di prigione (è in libertà condizionata), a venti anni di inattività cinematografica, a non avere rapporti con media iraniani e stranieri, a non poter uscire dal Paese.

E allora Panahi esce di casa, sale in macchina, monta tre telecamerine nell’abitacolo, gira clandestinamente (per strada e per riprese) quindici giorni con amici e conoscenti sulla base di un canovaccio dove (come a lui piace) si mescolano realtà e finzione; nasconde il girato, riesce a mostrarlo alla selezionatrice del festival di Berlino, che lo inserisce nel programma del festival, la cui giuria lo premia con il massimo dei riconoscimenti, l’Orso d’oro.

Anche se Taxi non è (come potrebbe esserlo?) un “bel” film, anche se non è originale (Kiarostami, altro regista di culto, aveva già tentato qualche anno fa un’operazione analoga, tutta al femminile, con Ten).

Perché Panahi è un uomo libero, un uomo vivo, un uomo con delle idee e la voglia insopprimibile di esprimerle. Perché non si arrende neppure quando sembrava annientato; perché vuole lottare contro un regime totalitario, una religione oppressiva che negando la rappresentazione della vita nega la vita, contro la censura e contro l’ipocrisia. E le videocamere Black Magic, tanto piccole da poter essere nascoste in una scatola di fazzoletti, è la sua fionda nell’impari lotta contro un gigante che potrebbe annientarlo da un momento all’altro con un battito di ciglia.

Per questo Taxi Teheran è un film importante; andate a vederlo se potete, o per lo meno sappiate che c’è, e che nulla è perduto, finché un uomo come Panahi esiste e resiste.