La mia valigia di “cartone”

Di Lucilla Continenza. Sono stata concepita e sono cresciuta a Sesto San Giovanni, ma sono “venuta al mondo” in un piccolo ospedale di un paesino della marsica, in Abruzzo. Parlo di una zona montana e aspra che confina con il Lazio, dove in inverno scende a valle ancora qualche lupo; paesino situato ai piedi di un meraviglioso parco nazionale. Sono infatti nata a Pescina, forse conosciuta da alcuni perché ha dato i natali a Mazarino e a Ignazio Silone e perché Fontamara, libro capolavoro antifascista di Silone, è ispirato a quel paesino. Fontamara tratta di ultimi, di “cafoni”, di gente travolta dall’oppressione fascista, di migrazioni. E’ un romanzo che riporta un esempio, uno dei tanti, come afferma lo stesso Silone, nelle prima pagina del suo capolavoro. Un tempo questo libro, che analizza il rapporto tra oppressi e oppressori, tra ricchi e poveri, tra emarginati e padroni, veniva fatto leggere nelle scuole. 
E’ stato rappresentato a teatro, la RAI ne fece un famoso sceneggiato con un giovanissimo e bellissimo Michele Placido.

Io sono fiera di essere nata “cafona”, figlia di migranti. Mio padre era un migrante, un “terrone”, mio nonno lavorò anni in Francia e poi in Germania per mantenere la sua famiglia rimasta in marsica, uno “sporco” italiano. L’altro mio nonno fece la stessa scelta, trovò un’occupazione in una fonderia tedesca. Il mio bisnonno, già adulto e con diversi figli, fece i bagagli e si trasferì con alcuni di loro, in maremma. Ho parenti pure in Argentina dove la sorella di mia nonna emigrò, prendendo una nave, con il marito.

Ritengo di appartenere alla cosiddetta “seconda generazione”, ma da bambina ero più fortunata, anche se pur sempre figlia di “terroni”, visto che la marsica non è il profondo sud e l’immigrazione abruzzese, a Milano, non era poi molto diffusa. Noi abruzzesi quindi non rompevamo troppo i “maroni”, come si dice qui. La vicinanza della marsica a Roma aveva spostato i flussi migratori, negli anni ’70, nella Capitale.

Mi chiedo cosa significhi emigrare. Basandomi sulla mia esperienza, emigrare vuol dire rinunciare alle proprie radici, alla famiglia d’origine, ai propri usi e costumi e doversi integrare, imparare una nuova lingua, confrontarsi con altri modi di vedere e di pensare, sopravvivere in qualche modo, sperando che migliori, perché dove sei nato le possibilità sono poche. Emigrare non è bello, è un sacrificio. Ai miei tempi le vie di trasporto non erano così veloci, le telefonate costavano, i rapporti con i genitori, i fratelli, le sorelle, i cugini erano più difficili. Si restava soli a Natale, a Pasqua, senza feste, senza appoggi, ci si arrangiava, si cercavano nuove relazioni, nuove reti. Io, figlia di migranti, mi chiedevo perché i “lombardi” fossero in un modo; i “veneti”, i “campani”, i “pugliesi”, i “calabresi”, i “siciliani” in altri modi ancora. Le lingue erano tante, (definizione antropologica dei dialetti), a volte quasi incomprensibili, come le “identità”, non c’era ancora la globalizzazione. Ricordo però che le istituzioni integravano, soprattutto qui a Sesto,  non discriminavano. Istituzioni e migranti, assieme, hanno fatto  di Milano la grande “capitale economica”, quella che e’ oggi ovvero la città più “importante” d’Italia, dove dal sud i laureati, che non trovano lavoro, arrivano ancora. Sottolineo che mio padre non venne reclutato da nessuna azienda, i tempi d’oro del collocamento, quello che funzionava, erano quasi finiti. Venne qui, solo, a 20 anni, salutando la sua famiglia con un “ci rivediamo la prossima estate, se va bene”, per lavorare negli altiforni della Pirelli, nonostante fosse un ebanista, ovvero un falegname che sapeva intarsiare il legno. Con il tempo il suo “mestiere” è riuscito, più o meno, a farlo e ci ha “campato” comunque bene.

Io, seconda generazione, non mi percepisco né milanese, mi sarebbe difficile; né marsicana o abruzzese: è una zona dove torno spesso, ma il mio accento è diverso, le mie abitudini pure, il mio cibo è un altro. Sinceramente non mi considero neppure italiana perché, forse è un mio limite, non capisco cosa significhi nell’accezione decantata da Salvini, il nostro ministro che si vanta della sua legge razzista e tanto amato da chi come me l’immigrazione l’ha vissuta, ma forse se l’è dimenticata.

Io sono, molto banalmente, una donna che deriva da generazioni di “cafoni”, cresciuta a Milano e soprattutto figlia di un mondo che si muove e ripeto: “NE SONO FIERA”.