Al cinema x comprendere Trump: Free State of Jones

di Mauro Caron

Free State of Jones non sarà un film memorabile, per quanto godibile, ma è un film che cerca di riportare alla memoria fatti storici molto interessanti, per qualunque spettatore, ma soprattutto per gli spettatori americani. Come molti di noi non conoscono a fondo episodi che hanno portato al Risorgimento o all’unità d’Italia, suppongo che allo stesso modo molti statunitensi non conoscano alcuni fatti che sono alla base della nascita della nazione, quella stessa Birth of the Nation che uno dei padri del linguaggio cinematografico, David W. Griffith, raccontò all’inizio del secolo scorso con una celebrazione del Ku Klux Kan in un film di immensi popolarità e successo (lo stesso titolo ha polemicamente un film recentissimo, che racconta la “controstoria” di una rivolta nera nella Virginia del 1830).
Oggi la prospettiva è un po’ diversa dal 1915 (ma non completamente: il neopresidente Donald Trump ha incassato senza battere ciglio l’appoggio elettorale dei razzisti incappucciati e Free State of Jones sta stentando a ripagare i costi di produzione) e Gary Ross (regista eclettico passato dalla commedia metacinematografica di Pleasentville alla fantascienza distopica di Hunger Games), ha scritto, prodotto e diretto il film imperniandolo sulla figura storica di Newton Knight, “cavaliere” di nome, e nei fatti contadino diventato soldato, infermiere, disertore, fuggiasco, ladro, capo di comunità, condottiero, fondatore di uno stato indipendente, propugnatore della mescolanza tra le razze e altro ancora.
Siamo ai tempi della cruentissima Guerra civile, e Knight, stanco di guerra, diserta dall’esercito sudista e torna alla sua terra. Dopo aver cercato di difendere i suoi vicini (per lo più donne e bambini, gli uomini sono al fronte) dalle angherie delle truppe confederate, che razziano senza tanti complimenti i pochi averi e alimenti degli abitanti, con il pretesto di procurare vettovaglie e beni di conforto per le truppe, è costretto a fuggire. Rifugiatosi nelle paludi, diventa presto il capo di una banda (che diventerà poi una “compagnia” paramilitare) composta principalmente da disertori e schiavi fuggiti, oltre che da contadini e donne, che si oppone alle razzie dell’esercito, si riappropria con la forza del maltolto, entra in conflitto con le truppe confederate, ha la meglio con tattiche da guerriglia di un’intera divisione, prende possesso di una serie di contee e fonda il libero stato interrazziale di Newton. Non sostenuti dall’Unione nordista, Knight e i suoi sono costretti a ripiegare nelle paludi, ma la fine della guerra è ormai vicina e la Confederazione è destinata alla sconfitta.
Il racconto di Gary Ross si spinge però oltre il periodo eroico delle guerra parallela di Newton e dei suoi compagni, addentrandosi nell’epoca del dopoguerra, in cui la Ricostruzione si traduce (come spesso è capitato in varie epoche e latitudini) in una restaurazione: malgrado i toni sobriamente agiografici con cui racconta le gesta di Knight (autorevolmente interpretato da Matthew McConaughey), il film ci tiene a raccontare che non tutti i crimini sono puniti e che giustizia, eguaglianza e democrazia rimangono belle parole astratte, mentre i ricchi sudisti (stupratori, nel caso) riprendono possesso delle loro proprietà dopo aver disinvoltamente giurato fedeltà all’Unione, gli ufficiali razziatori diventano giudici, le elezioni vengono truccate e la brava gente del Sud si infila il cappuccio con le tre K e lincia i negri che osano alzare la testa.
Se la figura e le vicende di Knight sono probabilmente romanzate, molto interessante è comunque lo spaccato storico descritto, nonché, nello specifico, la messa a fuoco di diversi provvedimenti legislativi esemplari: come quello detto “dei 20 negri”, per il quale i possidenti vedevano un membro della propria famiglia esonerato dalla partecipazione alla guerra ogni venti schiavi posseduti, il che faceva sì ovviamente che la guerra a difesa delle proprietà, dei privilegi e dei soprusi dei ricchi la combattessero essenzialmente i poveri; o quello postbellico dei “40 acri e un mulo” (espressione diventata il nome della casa di produzione di Spike Lee, oltre che essere citata polemicamente in numerosi brani di rapper afroamericani), che doveva essere la dotazione per ogni schiavo liberato in modo che si potesse procurare il proprio sostentamento, e che fu prestissimo revocata e ribaltata dopo l’assassinio di Lincoln; o quello sull’apprendistato, che di fatto sotto questo simpatico eufemismo ripristinava la schiavitù negli Stati del Sud (i datori di lavoro erano perfino autorizzati a catturare e riportare al lavoro con la forza gli “apprendisti” fuggiaschi); o ancora quello che vide vittima tra gli altri uno dei discendenti di Knight e della sua seconda moglie, una nera liberata. Ross ce ne racconta in un’appendice narrativa ambientata un’ottantina di anni dopo i fatti raccontati nella vicenda principale, quando negli Stati del Sud degli Usa, alle soglie degli anni ’50, bastava avere nelle vene un ottavo di sangue non bianco per essere considerato un negro ed essere privato di alcuni diritti civili: per questo motivo il pronipote di Knight (di carnagione chiara) fu condannato in tribunale a 5 anni di carcere (poi non scontati) per aver sposato la donna bianca che amava.

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