Teruzzi si racconta

Dopo aver ricordato il grande campione sestese recentemente scomparso con un articolo di Giorgio Oldrini pubblichiamo questo simpatico racconto tratto dal sito www.ilcorriere.it.  

Il padre acrobata in moto

• Figlio del proprietario di un deposito-noleggio di biciclette di Sesto San Giovanni, un ex acrobata del Circo Padella («faceva il giro della morte sulla moto»), a quattro anni perse la madre: «Mio padre si risposò altre due volte. L’ultima con una ragazza di diciassette anni quando io ne avevo già nove. E allora mi misero in collegio ad Albizzate e poco ci mancò che finissi pretino nel seminario di Venegono. Più tardi cominciai a giocare a calcio con la Falk, alla fine arrivai anche in nazionale C assieme a Toppan, che poi finì al Milan. Però mio padre mi sognava ciclista: e allora mi dividevo democraticamente, una domenica la partita, quell’altra la corsa» [Cesare Fiumi, Storie esemplari di piccoli eroi, Feltrinelli, 1996].
Una borraccia piena di Marsala all’uovo
• Già a cinque anni Terruzzi vinse la sua prima corsa, il Premio Sempione di Milano, gara aperta ai bambini fino a otto anni: «Vuol sapere cosa c’era dentro quelle borracce? Marsala all’uovo. Ce l’aveva messa mio padre e io la ciucciavo compiaciuto». Dal ’42 si dedicò solo alla bici: «Prima di diventare recluta bersagliere a Torino e di fuggire, dopo l’8 settembre, in Svizzera dove rimasi fino alla fine della guerra». La prima grande affermazione arrivò ai Giochi Olimpici di Londra (’48): «Qualche tempo fa, un amico ha trovato al mercatino del bric-à-brac, qui in paese, una Gazzetta dello Sport dell’agosto del ’48, quella del giorno della mia medaglia d’oro alle Olimpiadi. E me l’ha regalata. C’è la foto in prima pagina del testa a testa contro gli inglesi, Perona e io che bruciammo Harris-Bannister».
Il destino scambiato con Cerdan
• Dopo il successo di Londra, Terruzzi sarebbe voluto diventare un grande sprinter, ma capì subito che data la concorrenza la strada per il vertice era sbarrata. Si diede allora alla carriera internazionale da seigiornista: «La mia avventura per il mondo cominciò con uno scherzo del destino. Era il ’49, dovevamo partire per New York, Rigoni e io, sarebbe stata la nostra prima Sei Giorni in coppia. Dovevamo correre un circuito cittadino a Mestre e l’indomani ci saremmo imbarcati da Parigi sull’aereo per New York. Però ci fecero pressioni dall’America: il sindaco Fiorello La Guardia voleva che anche gli italiani partecipassero al banchetto ufficiale, ci chiesero di anticipare il viaggio. Partimmo con ventiquattro ore d’anticipo sul nostro programma. Il giorno seguente ci fu un disastro aereo: il volo da Parigi a New York non arrivò mai a destinazione, dovevamo esserci noi su quell’apparecchio. E invece c’era il grande pugile francese Cerdan che aveva occupato uno dei nostri posti rimasti liberi. Veniva a New York per il match con Jack La Motta: morì al posto nostro».
Il re delle Sei Giorni
• Ai tempi di Terruzzi, i corridori delle Sei Giorni dormivano all’interno del palazzo che ospitava le gare, accampati negli spogliatoi o nei sotterranei senza mai uscire, pena la squalifica: «Erano guardati da tutti con occhi affascinati, i seigiornisti: romantici giramondo disposti a chiudersi in un palazzo dello sport per dare spettacolo su un anello di 400 metri, davanti a tribune sempre gremite, in ogni angolo del globo. Bene, di queste manifestazioni Terruzzi è un autentico re: dotato di un ottimo spunto veloce, Nando è un drago in pista, ma sa trasformarsi in autentico attore, capace di incantare le platee con trovate anche comiche, dettate dall’esigenza di stemperare la tensione e di fare spettacolo» (I Campioni del Ciclismo, Fabbri Editori 1999).
Una vita da “emigrante”
• Negli anni delle Sei Giorni, Terruzzi divenne un “emigrante”: «Non sarei capace di raccontare l’Italia. Non l’ho vissuta. Ne ho conosciuta un’altra, quella dei connazionali all’estero, degli emigranti non certo per sport come me, che si commuovevano quando vincevo. Ho visto Berlino distrutta dalle bombe, ho sentito i fischi di Parigi, quando la ferita della guerra era ancora aperta. Ho visto i poliziotti argentini picchiare i tifosi italiani che volevano abbracciarmi dopo una vittoria e mi scappava da piangere perché non fuggivano neppure davanti alle botte. Ho visto in Australia italiani e britannici scatenati in una rissa gigantesca, provocati dall’ingenuità mia e di Patterson che mimammo un diverbio in pista, sotto consiglio dell’organizzazione, che voleva fare il pienone: non mi prestai mai più a simili richieste».
Le frenate col naso e il povero Palle Likke
• Terruzzi divenne noto per l’abitudine di usare il naso come un freno, «arrotino di se stesso tra il raccapriccio e la stupita ammirazione della gente» (Fiumi): «Lo facevo per lo spettacolo, dopo uno sprint di rimonta, quando ero sicuro d’essere primo. Qualche volta il naso sanguinava, ma era diventato come un gioco. Poi è venuto un foruncolo propriò lì e mi son dovuto operare. Ma io ero così, un po’ matto: show o competizione, mi prendevo tutti i rischi, perché questa è la legge della pista. Se ti vedono spericolato ti temono e ti lasciano passare. Eravamo come i cani  che sentono quando uno ha paura». A volte, in vantaggio nello sprint, all’altezza dell’ultima curva poggiava il petto sul sellino, allungava le gambe all’indietro e arrivava al traguardo senza le mani sul manubrio: «Un giorno tentò di imitarmi il danese Palle Likke, ma si strizzò i genitali sul sellino, cadde sulla pista e non ci riprovò più».
In coppia con Coppi
• Tra i suoi ammiratori Fausto Coppi, che lo riteneva in grado di  «pedalare perfino sui bordi di una vasca da bagno», nel 1952 Terruzzi affiancò il campionissimo in una Sei Giorni parigina: «A lui davano tre milioni e mezzo di franchi, a me ottocentomila. Noi seigiornisti puri, noi uomini di pista, stavamo agli stradisti di fama come il teatro sta al cinema. Dormivamo tre ore per notte, e alloggiavamo tutti nelle camerette dell’impianto, mentre Coppi riposava in albergo: quelli come lui avevano una clausola speciale nei contratti. Ero coppiano, ma Fausto alle Sei Giorni veniva per gli ingaggi, non per battere tutti. Così se vincevamo, vinceva Coppi col suo coéquipier, se perdevamo, perdeva Terruzzi che era lo specialista. Quella volta a Parigi finimmo quarti e la “Gazzetta” scrisse: “Peccato che Terruzzi non abbia tenuto l’ultima ora di corsa”. Una bugia che mi fece piangere, strappai il giornale in cinquanta pezzi dalla rabbia».
Milano, finalmente
• Sovente usato come “taxi” (con questo termine si definisce nell’ambiente il corridore esperto, specialista, che deve guidare il compagno di coppia – fosse anche un campione della strada – non esperto di pista), la mancanza di attività seigiornistica in Italia condizionò le possibilità di Terruzzi: «Solamente a carriera avanzata, con la ripresa della Sei Giorni a Milano nel 1961, a Terruzzi è offerta la possibilità d’esibirsi davanti al suo pubblico». [I Campioni del Ciclismo] «Avevo trentasette anni, finalmente potevo vincere anche a casa mia. È stata l’emozione più grande. Ho continuato a gareggiare per altri quattro anni soltanto per togliermi qualche soddisfazione in Italia. Ho chiuso la carriera proprio a Milano, ormai avevo la pancia, il fisico d’atleta se n’era andato da un pezzo, eppure conclusi l’ultima prova arrivando secondo».